La Corte Costituzionale sulle persone non binarie e sulla rettificazione dell'attribuzione di sesso
Con la recentissima sentenza n. 143 del 24 luglio 2024 ha avuto modo di pronunciarsi sulla base di un articolato quesito di legittimità costituzionale posto dal Tribunale di Bolzano, che intreccia problematiche complesse che toccano vari diritti, dal diritto alla salute al diritto all'idenità di genere.
Il caso origina dalla richiesta effettuata da una persona di sesso anagrafico femminile, la quale non si riconosce tuttavia in tale genere, né propriamente in quello maschile, bensì in un genere non binario, seppure incline al polo maschile; assunto durante la frequenza degli studi universitari il prenome maschile di I., dal quale ormai si sente definita rispetto agli altri, N. si è infine rivolta alle strutture sanitarie pubbliche, presso le quali ha ricevuto una diagnosi di disforia o incongruenza di genere, per identificazione non binaria, con propensione alla componente maschile; da qui la sua domanda giudiziale per ottenere la rettificazione del sesso da "femminile" ad "altro" e il cambiamento del prenome da L. a I., nonché per vedersi riconosciuto il diritto di sottoporsi a ogni intervento medico-chirurgico in senso gino-androide (innanzitutto, la mastectomia).
Infatti, due sono le questioni sollevate dal giudice rimettente: la prima concerne la dimensione - relativamente nuova per il diritto - della rivendicazione di un'identità di genere non binaria, mentre la seconda rileva anche per la condizione, ormai ben nota all'ordinamento, della persona che transiti dal genere femminile al maschile, o viceversa.
Sul primo punto, la Corte Costituzionale, pur evidenziando un problema di tono costituzionale, esse, per le ricadute sistematiche che implicano, eccedono il perimetro del sindacato della Corte stessa.
Sul punto della rivendicazione di un'identità di genere non binaria ovvero "altro" dal maschile e femminile, infatti, ci dice la Corte Costituzionale, che traccia la linea che il legislatore dovrebbe seguire, la diagnosi rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica in funzione del giudizio a quo conferma nella specie la realtà clinica dell'identificazione non binaria e inveroessa, come trascritta nell'ordinanza di rimessione, sottolinea che "i termini disforiadi genere (DSM-5) e incongruenza di genere (ICD-11) includono sia le denominazioni di genere binarie (maschile/femminile) sia tutte le altre forme di definizione di genere (riassunte nel termine non-binario)".
Per il DSM-5 (quinta revisione del "Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders"), la disforia di genere, oltre che al maschile e al femminile, può attenere a "some alternative gender"; lo stesso per l'incongruenza di genere, classe diagnostica utilizzatadall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nell'ICD-11 (undicesima revisione dell'"International Classification of Diseases").
Non pochi ordinamenti europei - da ultimo quello tedesco, con la recente legge sull'autodeterminazione in materia di registrazione del sesso ("Gesetz über die Selbstbestimmung in Bezug auf den Geschlechtseintrag SBGG") - hanno riconosciuto e disciplinato l'identitànon binaria, seppure in forme diversificate. La Corte costituzionale belga ha censurato la delimitazione binaria della disciplina legislativa della transizione di genere, stigmatizzando l' ingiustificata disparità di trattamento fra chi sente di appartenere al sesso maschile o femminile e chi invece non si identifica in alcuno dei predetti generi (arrêt n. 99/2019 del 19 giugno 2019). Lo stesso diritto dell'Unione europea da tempo va evolvendo in tal senso, e infatti, per favorire la circolazione dei documenti pubblici tra gli Stati membri, il regolamento (UE) 2016/1191 del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 luglio 2016, che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i requisiti per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell'Unione europea e che modifica il regolamento (UE) n. 1024/2012, presenta moduli standard recanti alla voce "sesso" non due diciture, ma tre, "femminile", "maschile" e "indeterminato".
Mentre è ormai ferma nell'accordare tutela convenzionale alla transizione verso un genere binario (fin dalla sentenza della grande camera, 11 luglio 2002, C.G. controRegno unito), la Corte EDU ha recentemente escluso che l'art. 8 CEDU ponga sugli Stati un'obbligazione positiva di registrazione non binaria, non potendosi ritenere ancora sussistente un consensus europeo al riguardo (sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia).
In senso analogo si era già espressa la Corte suprema del Regno unito, a proposito dell'identificazione non binaria tramite marcatore "X" sui passaporti (sentenza 15 dicembre 2021, Elan-Cane, UKSC 56).
Pertanto, ci dice la Corte Costituzionale, la percezione dell'individuo di non appartenere né al sesso femminile, né aquello maschile - da cui nasce l'esigenza di essere riconosciuto in una identità "altra" - genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l'ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.).
Nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.
In vari ambiti della comunità nazionale si manifesta una sempre più avvertita sensibilità nei confronti di questa realtà pur minoritaria, come dimostra, tra l'altro, la pratica delle "carriere alias", tramite le quali diversi istituti di istruzione secondaria e universitaria permettono agli studenti di assumere elettivamente, ai fini amministrativiinterni, un'identità - anche non binaria - coerente al genere percepito.
Tali considerazioni, unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell'Unione europea, pongono la condizione non binaria all'attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale.
D'altronde, dice ancora la Corte, l'eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell'ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria.
Per ricordare solo gli aspetti di maggior evidenza, il binarismo di genere informa il diritto di famiglia (così per il matrimonio e l'unione civile, negozi riservati a persone di sesso diverso e, rispettivamente, dello stesso sesso), il diritto del lavoro (per le azioni positive in favore della lavoratrice), il diritto dello sport (per la distinzione degli ambiti competitivi), il diritto della riservatezza (i "luoghi di contatto", quali carceri, ospedali e simili, sono normalmente strutturati per genere maschile e femminile).
La rettificazione in senso non binario inciderebbe anche sulla disciplina dello stato civile, e non soltanto per la necessità di coniare una nuova voce di registrazione, ma anche riguardo al nome della persona.
Infatti, l'art. 35, comma 1, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) stabilisce il principio della corrispondenza tra nome e sesso, principio che andrebbe superato, o quantomeno relativizzato, per le persone con identità non binaria, giacché nell'onomastica italiana i nomi ambigenere sono rarissimi (lo conferma proprio il caso di specie, nel quale la persona chiede il riconoscimento dell'identità non binariae vuole pertanto abbandonare il nome femminile imposto alla nascita, e tuttavia opta, in sostituzione, per un nome maschile).
La Corte, però ritiene, nel merito fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 31, comma 4, del D.Lgs. n. 150 del 2011 ovvero di quella norma che prevede che quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, questo vada autorizzato dal tribunale con sentenza passata in giudicato.
La previsione dell'autorizzazione giudiziale per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali ha rappresentato una cautela adottata dalla L. n. 164 del 1982 nel momento in cui l'ordinamento italiano si apriva alla rettificazione dell'attribuzione di sesso.
La Corte specifica che, pur non avendo eguali nel panorama comparatistico, che evidenzia semmai una progressiva focalizzazione sull'autodeterminazione individuale, e pur non essendo priva di tratti paternalistici, rispetto a persone maggiorenni e capaci di autodeterminarsi, questa prescrizione normativa non può dirsi in sé manifestamente irragionevole, e quindi esorbitante dalla sfera della discrezionalità legislativa, considerata l'entità e la irreversibilità delle conseguenze prodotte sul corpo del paziente da simili interventi chirurgici.
Il regime autorizzatorio è divenuto tuttavia irrazionale, nella sua rigidità, laddove non si coordina con l'incidenza sul quadro normativo della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 20 luglio 2015, n. 15138, e successivamente della sentenza di questa Corte n. 221 del 2015.
Come più sopra ricordato, tale evoluzione giurisprudenziale ha escluso che le modificazioni dei caratteri sessuali richieste agli effetti della rettificazione anagrafica debbano necessariamente includere un trattamento chirurgico di adeguamento, quest'ultimo essendo soltanto un "possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico" (sentenza n. 221 del 2015).
La sentenza n. 180 del 2017 ha quindi ribadito - come già visto - che agli effetti della rettificazione è necessario e sufficiente l'accertamento dell'"intervenuta oggettiva transizione dell'identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata".
Potendo questo percorso compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico, la prescrizione indistinta dell'autorizzazione giudiziale denuncia una palese irragionevolezza: in tal caso, infatti, un eventuale intervento chirurgico avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione.
Tale mutato quadro normativo e giurisprudenziale, in cui l'autorizzazione prevista dalla disposizione oggi censurata mostra di aver perduto ogni ragion d'essere al cospetto di un percorso di transizione già sufficientemente avanzato, è alla base dell'orientamento diffusosi presso la giurisprudenza di merito, che sovente autorizza l'intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione, e non prima e in funzione della rettificazione stessa
Alla luce dell'articolata motivazione, la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 4, del D.Lgs. n. 150 del 2011 - per irragionevolezza ai sensi dell'art. 3 Cost. - nella parte in cui prescrive l'autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l'accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
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