Retribuzione proporzionata e sufficiente. Il Giudice può discostarsi dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, usando anche indicatori Europei.

    


     La Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro con la sentenza n. 27713 del 2 ottobre 2023, in tema di retribuzione proporzionata e sufficiente, ha affermato i seguenti principi:

    «Nell’attuazione dell’art. 36 della Costituzione il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita nella contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.
    Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.      

    Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099, comma 2, c.c., può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, la quale convalida in più di una disposizione il riferimento in questa materia agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà, oltre che ad altri strumenti di computo ed indicatori nazionali ed internazionali.

    Secondo la Corte, va ricordato, sulla scia di quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 24449/2016 l’art. 36, 1° co., Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, «nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda»: quello ad una retribuzione «proporzionata» garantisce ai lavoratori «una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata»; mentre quello ad una retribuzione «sufficiente» dà diritto ad «una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo», ovvero ad «una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». 

    In altre parole, l’uno stabilisce «un criterio positivo di carattere generale», l’altro «un limite negativo, invalicabile in assoluto».

    Resta, peraltro, sempre valido il monito formulato dalla giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Cass.01/02/2006, n. 2245, Cass.14.1.2021 n. 546) con cui si invita il giudice che si discosti da quanto previsto dai contratti collettivi ad usare la massima prudenza e adeguata motivazione «giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali».

    Tuttavia, nella variegata casistica giurisprudenziale si registrano, alla luce dei fatti concreti, frequenti deviazioni dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, essendo sempre stato inteso, quello del
riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi post-corporativi di categoria, come una facoltà piuttosto che un obbligo inderogabile per il giudice di merito, fatto salvo l’onere della motivazione conforme.

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