Il contratto di “spedalità”: quanto contano le carenze di tipo logistico-organizzativo della struttura?

La Cassazione, con la sentenza n. 21090 del 19 ottobre 2015, ha confermato la sentenza di appello che aveva condannato l’Azienda Sanitaria a risarcire il danno patito in dipendenza del decesso di un signore, a seguito di un gravissimo infortunio sul lavoro e durante il suo successivo ricovero in ospedale.
La Cassazione sottolinea un importante aspetto, specificando come anche il pieno rispetto della normativa vigente in materia di dotazione minime delle strutture erogatrici dell’assistenza sanitaria in emergenza non esima affatto da responsabilità la struttura ospedaliera se, in relazione a quelle condizioni di partenza pur non ottimali, le condotte degli operatori siano valutate comunque inadeguate.
Infatti, richiamando la normativa relativa alla responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione per i sinistri dovuti alla conformazione di manufatti stradali, nella quale si è affermata la necessità di rispettare anche le regole comuni di diligenza e prudenza, nel caso del contratto di “spedalità” questa non basta: “non basta che una struttura ospedaliera – pubblica o meno – rispetti la dotazione o le istruzioni, anche manifestamente insufficienti rispetto alle emergenze maggiori, previste dalla normativa vigente per andare esente da responsabilità in caso di quest’ultime.”
In tema di responsabilità contrattuale, qual è quella del “contratto di spedalità”, deriva dall’obbligo di erogare la prestazione con la massima diligenza e prudenza che un nosocomio, oltre ad osservare le normative di ogni rango in tema di dotazioni e struttura delle organizzazioni in emergenza, tenga poi in concreto per il tramite dei suoi operatori, condotte adeguate alle condizioni disperate del paziente ed in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, benché conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni più idonee a scongiurare l’impossibilità di salvataggio del leso.
Pertanto, i ritardi nella comunicazione dei decisivi dati degli esami di laboratorio e nell’effettivo avvio dell’intervento chirurgico, come le modalità di manipolazione del già devastato bacino del paziente sono state correttamente individuate dalla corte d’appello come potenziali cause della morte del paziente; mentre anche un’eventuale conformità della non adeguata scorta di sangue alle previsioni normative applicabili non avrebbe esentato l’azienda dall’onere dell’adozione di ogni misura conseguente, quale immediata richiesta di altro sangue o, per ipotesi, il trasferimento immediato del paziente ad altra struttura più attrezzata.
Inoltre, gravava sull’Azienda Ospedaliera, versandosi in tema i responsabilità contrattuale, provare di aver erogato tutte le prestazioni idonee in relazione alla fattispecie, ricadendo sulla stessa-debitrice le conseguenze dell’assenza o dell’incompletezza della prova stessa, restando a carico del debitore convenuto – riscontrato il nesso causale – l’onere di dimostrare che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno (Cass. n. 27855/2013- Cass. n. 20547/2014).
In appello è stato motivato che le negligenze o imprudenze definitivamente accertate hanno potuto causare il decesso mentre la struttura ospedaliera non ha dimostrato che nonostante fossero avvenuti tali inesatti adempimenti, la morte sarebbe giunta ugualmente. 
Anzi, le condotte colpose sono state tali da escludere il differimento dell’esito letale, sottolineando che queste non avrebbero determinato il peggioramento tale poi avvenuto fino a condurre la situazione in un punto disperato da non poter essere più rimediabile al momento e nel corso dell’intervento chirurgico.

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